Nasce da simili presupposti
la domanda che più ci compete: come mai un pubblico tanto vasto, stratificato e interclassista ha potuto convergere con fervore su un mondo narrato che in tutto e per tutto lo oltrepassa, forse anche lo sminuisce, lo irride con eleganza e
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condizione si lascia sedurre da un principe ottocentesco, latifondista e dispotico, studioso del cielo stellato come unico rimedio a una umanità volgare? Una tra le risposte più sensate viene da Vittorio Spinazzola, e ha il pregio di rimanere sul terreno della letteratura: “Il modello di comportamento indicato dal romanzo – dice – è di indole aristocraticistica: ma la prosa forbita del narratore lo
atteggia in modi così brillantemente divulgativi da predisporlo a una ricezione di massa”. Tutto bene: la magia del Gattopardo, stando a Spinazzola, risiede in una forbita divulgatività, insomma in un apologo raffinato alla portata di (quasi) tutti. C’è però anche un’altra risposta, venuta a suo tempo da un cugino di Tomasi, il poeta Lucio Piccolo, che dovendo spiegare il clamoroso successo del romanzo osservò: “è stato favorito dal radicale snobismo dei lettori”.